C’era una volta l’arte “stagnante” fatta di rappresentazioni-farsa e di una “estetica vuota delle forme fisse”. Così almeno, secondo Lucio Fontana, nel suo Manifiesto Blanco del 1946. Fu col suo gesto, rivoluzionario, di tagliare e bucare la tela che si passò da una pittura bidimensionale a una pittura a più dimensioni, una pittura in grado di unire spazio e tempo. Una pittura che fa della tela una sostanza, un essere autosufficiente. È da questa lezione che parte Vanna Nicolotti, che studia grafica con Oscar Signorini e poi con lui fonda D’Ars, la più antica rivista d’arte contemporanea in Italia, che ha accompagnato l’evolversi dell’arte in anni cruciali come gli anni ‘60-‘70. Gli stessi in cui esplode il talento della Nicolotti. Dalla lezione spazialista, dalla cancellazione di ogni messaggio superfluo, marginale, nascono le creazioni dell’artista. Non solo tagli, buchi, strappi, ma vere e proprie strutture. Fenditure precise, tagli raffinati e geometrici che si trasformano allo sguardo dell’osservatore. Ora sono finestre, ora porte, ora bocche d’aerazione. Nicolotti va oltre lo spazialismo entrando in una corrente definita Rigorismo, che l’accomuna a Fontana ma anche ad Agostino Bonalumi, Turi Simeti, Enrico Castellani.
Unica donna tra illustri maestri che sanno prendere lo spazio e farlo parlare, lo spazio anzi diventa opera stessa. Lo spazio in quanto tale, lo spazio in quanto arte. “Sarà sempre e solamente lo stesso spazio, in quanto tale, a determinarsi; e non ad accogliere il determinato – scrive il filosofo Massimo Donà in una presentazione del Rigorismo – Cioè a distinguersi in virtù di una potenza temporalizzatrice destinata a distinguere… nel farsi negazione di quel che per essa comunque e ogni volta pur riesce a distinguersi (e quindi a prender spazio). Rendendo determinato in primis lo spazio in quanto tale. Oggettivizzandolo, cioè… ma non come qualcosa che verrebbe semplicemente accolto dalla paziente apertura costituita dal medesimo. O che, in esso, riuscirebbe a dire solo quel che questo stesso qualcosa fosse venuto a essere nel tempo e nello spazio. No, qui si sta dicendo che è lo spazio medesimo a potersi fare oggetto e dunque opera”. Un lavoro puro, preciso, perfetto e semplice. Rigoroso. Ma non rigido, perché in ognuno emerge la sensibilità particolare dell’artista. Nell’opera della Nicolotti emerge una sensibilità raffinata, un’idea elegante di forma che si piega e si modella nelle sue mani sapienti. Più strati di tela si sovrappongono dando un effetto tridimensionale, forme e colori sottendono a questi strati facendone oggetti visivi capaci di offrire a chi osserva illusioni ottiche e cromatiche.
Ci si muove dinanzi alle sue opere come si fa in un’opera architettonica, scoprendo a ogni passo una visione nuova. I suoi tagli diventano presenze. Portatrici di misteri, conduttrici di esperienze labirintiche, nascondono e svelano. Non già “estetica vuota delle forme fisse”, sono finestre su mondi nuovi.